Con queste impervie catene di monti che circondano la città, il sole non si solleva mai di tanto rispetto all’orizzonte, soprattutto in questa stagione, così che per tutto il pomeriggio fino alla sera permane la luce calda di un declino senza tempo. I raggi inclinati dell’autunno si sparpagliano ovunque, sui tendoni dei bar animati della piazza centrale, sui muri dei palazzi stile Secessione, sulle finestre socialiste delle costruzioni del regime, sulle panchine solitarie, su quello che resta del passato. Il vento soffia attraverso i teschi delle case abbandonate, e il giallo tremulo delle foglie dei tigli di Ulica Njegoševa.

Vorrebbe essere soltanto una passeggiata tranquilla, con la speranza che l’autunno non sfugga troppo presto. I marciapiedi sono però irregolari e cosparsi di buche, che nessuno però provi a metterne in discussione la pulizia! Li costeggiano canaletti profondi, qualche volta fino al ginocchio, realizzati per favorire il deflusso dell’acqua piovana. Si sente dire in giro che Cetinje, Montenegro, sia la città più piovosa del mondo, ma si sa cosa non farebbe un popolo per accaparrarsi qualche primato.
Camminando lungo queste strade troppo larghe per un villaggio che fu la capitale di un regno, nemmeno chi è appena arrivato si trova mai solo. Le statue allineate lungo i porticati di un altro secolo, con i volti corrosi dal muschio, guardano i passanti con gli occhi a volte assenti dei vecchi. Alcuni cani randagi compaiono dal nulla e li inseguono con curiosità incontaminata e innocente. Non hanno un brutto aspetto, i loro occhi sono vivaci e sinceri, stanno solo chiedendo di compiere una parte di cammino insieme. Se poi salta fuori qualcosa da mangiare, tanto meglio.
Ti inseguono senza ritegno, le loro instancabili attenzioni si trasformano presto in una vera e propria persecuzione, tale che restano nella tua ombra finché non decidi di prenderti una pausa al tavolino di uno dei bar della piazza centrale. Non c’è niente che gli abitanti di questa città amino di più, interrompere le attività della giornata per ritrovarsi a bere un caffé in quello che veramente è un salotto, senza tuttavia pretendere di essere quello buono o meno.
Il profumo del caffé si mescola con questo odore caratteristico dell’aria, già respirato altre volte, sempre viaggiando in un Paese lontano. L’aria è leggera ma sa di caldo, anzi di combustione, porta infatti con sé il fiato delle stufe alimentate a legna. Questo è il modo in cui chi vive qui si procura il calore.

Il monastero ci guarda dall’alto dei suoi loggiati con cento occhi. É il re degli edifici e appoggia la sua schiena alla montagna proprio come un fiero monarca che comodamente si adagia sul suo trono. La sua struttura è antica ma non così tanto, la Storia, ogni volta che è passata da queste parti ha lasciato soltanto macerie. La pietra grigia è la stessa che punteggia i fianchi delle montagne del Montenegro, solida e austera, dal colore sobrio per accompagnare la sofferenza, adatta a ricostruire. Si entra attraverso un portale per trovarsi in un cortile raccolto, sovrastato dall’imponente mole del monastero e percorso da monaci frettolosi dalle folte barbe e la tunica nera. Attraversano lo spiazzo da una parte all’altra. Quelli diretti verso sinistra finiscono per occuparsi dei soliti affari nel negozio di souvenir e oggetti devozionali. A destra si trova una porta che racchiude la parte più sacra del monastero di Cetinje, quella che custodisce la mano di San Giovanni Battista. Eppure non sono molti i fedeli che prendono questa direzione, preferiscono fermarsi un attimo prima, sotto a un modesto porticato di pietra dove depongono candele sottili e recitano preghiere con le quali consolano il pianto di Dio, che si manifesta in calde lacrime di cera.

Della stessa pietra è costruita la minuscola Chiesa dei Valacchi, sola, quasi abbandonata in un piccolo parco presso una di quelle piazzette dove la gente passa e se ne va. Guardandola dalla cinta di metallo che separa quel poligono di sacralità dal resto della città, è davvero piccina, sembra incredibile come possa accogliere qualsiasi celebrazione. La guida racconta che di fronte alla chiesa sono collocati due stécci. Sarebbe interessante ricordarsi cosa si intenda con questa parola, ma nemmeno internet, che trovandomi fuori dall’Unione Europea ho disattivato, può venirmi in aiuto. Il mio interesse per il luogo va gradualmente scemando, se non fosse che le mie mani stanno stringendo qualcosa. Mi sto aggrappando alle sbarre di un recinto che scottano come la memoria degli oggetti che furono. Ne riconosco la forma tubolare, i fori dove in passato si erano innestati meccanismi letali. Ogni singola sbarra lungo tutto il perimetro è una canna di fucile. Millecinquecento, strappate dalle mani dei turchi al termine di una lontana battaglia, tanto tempo fa.

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