Io sono il serpente, Marrakesh è il flauto, l’incantatore è uno sconosciuto che mi porta fuori dalla cesta. Così come il serpente segue i movimenti del suo padrone con lo sguardo, e muove melodicamente il suo collo sinuoso, anch’io seguo l’incanto ad ogni angolo. Mi attirano gli occhi di una donna che dolcemente mi prende la mano, ma quando cerco di ritirarla la trattiene con forza e non mi lascia più andare.
Il suo corpo prosperoso si cela sotto ampi veli che lasciano scoperto solo lo sguardo, dello stesso colore della notte che lentamente avvolge piazza Jemaa-el-Fnaa. La sua lingua è un calderone di parole, tracce di ogni popolo passato da un versante all’altro dell’Atlante, di cui riconosco soltanto sporadiche tracce di francese, inglese e spagnolo. Distinguo chiaramente solo alcune espressioni come “buona fortuna”, “prosperità”, “felicità nell’amore e nel sesso”. Tento di divincolarmi e inizio a replicare, mentendo, “Mi dispiace, non ho soldi con me…”
“Mi pagherai quello che puoi” mi risponde lei. Confidando nell’avere in tasca qualche moneta spicciola, non senza esitazione lascio che con una punta speciale tracci sulla mia mano alcuni segni con la tintura all’henné. In pochi attimi ha tracciato sul dorso della mia mano destra una forma astratta arricchita di punti e frange. Mi rimane addosso una fanghiglia nera che entro dieci minuti si sarebbe seccata e sbriciolandosi avrebbe rilasciato un pigmento rosso destinato a sbiadire in tre settimane.

Terminato lo scarabocchio la donna mi mostra una fotografia che ritrae il dorso di una mano femminile decorata con un tatuaggio all’henné dalle linee complesse, delicate e raffinate. L’etichetta accanto all’immagine comunica il prezzo per l’esecuzione di una simile opera, duecento dirham che corrispondono a poco meno di venti euro. Una cifra troppo alta perché io voglia pagarla, ingiustificata per qualche segno tracciato nel tempo di una risata.
La sua voce mi trattiene, non so come uscirne. La cifra richiesta è esagerata, non era stata pattuita, le carte in tavola sono cambiate se mai un accordo c’è stato. Mi sale l’inquietudine, mi sento improvvisamente straniero, di questa città non comprendo le lingue, i gesti, i pensieri. Ho paura, delle possibili reazioni della tatuatrice e non solo.
Jemaa-el-Fnaa, l’antica piazza delle esecuzioni, è affollata, è frastornante, diverse arti e mestieri si spartiscono la pavimentazione, si va dalla zona dei giocatori d’azzardo, dei venditori di paralumi, degli addestratori di scimmie, degli spremitori di melograni, dei friggitori di lumache, dei tamburi berberi, fino alla parte delle cartomanti. La piazza sembra sconfinata, stando su un lato non si riesce a scorgere l’altro tanta è la confusione. Si tratta dell’unico grande spazio aperto all’interno della labirintica medina di Marrakesh, a pochi passi dal minareto della moschea della Kutubiyya, il più importante della città.

La tatuatrice si alza in piedi, le altre donne della sua famiglia assistono silenziose, adagiate su un tappeto disteso sulla pavimentazione. Cerco di parlare con la donna, prima in francese poi in inglese, ma non cede. Mi mostra la sua pancia gonfia, è incinta.
Gabriele si presenta dietro le mie spalle, ne ha visibilmente abbastanza della situazione. Interviene, forse appena in tempo prima che la faccenda si faccia ancora più complicata di quello che è. Mette nelle mani della tatuatrice alcuni dirham, intimandole in italiano “O così, o niente” Gabriele è molto alto e di corporatura grande, mi afferra per un braccio e mi porta via. Il cuore mi batte forte, in qualche modo devo imparare qualcosa.
Aprire la mente a capire meccanismi diversi, restando però serpente per non perdersi lo stupore dell’incanto.
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